Se pensi che il mondo del vino sia palloso è perché non conosci questi ragazzi in Abruzzo
Sono andata a vedere come nascono i vini naturali di Lammidia in Abruzzo. E devo dire che qui la vendemmia è una pacchia: a metà mattina si fa pausa e si stappa la prima bottiglia della giornata.
Il torchio è piccolo e siamo in tre ad affondarci dentro le braccia fino al gomito per pressare le bucce. A turno, andiamo avanti e indietro coi secchi per riempirlo. Nonostante la fatica e le vespe che ci volano intorno, mi sto divertendo molto a veder nascere questo vino che sarà un rosato, di uve Montepulciano d’Abruzzo.
Mi trovo a Villa Celiera, sul versante orientale del Gran Sasso, siamo a 700 metri sul livello del mare, e il mare lo vedi laggiù in fondo tutte le volte che alzi lo sguardo.
L’antefatto è un cliché: bevo un vino e siccome mi piace voglio andare a vedere in faccia chi l’ha fatto e guardare il paesaggio che si vede da lì. Così sono finita in Abruzzo, a fare la vendemmia da due produttori che si fanno chiamare Lammidia. Vendemmia che è diventata un ritiro di tre giorni sulle colline abruzzesi per accompagnare l’uva nelle prime fasi della vinificazione. In quei giorni, oltre ad aver imparato qual è il modo migliore per tenere in mano un secchio pieno di mosto, mi sono ritrovata ad accumulare un po’ di pensieri su: cosa fa di un vino, un vino di territorio? E cosa fa di noi amanti del vino, delle persone pallose?
Cose da sapere prima di iniziare: Lammidia sono Davide Gentile e Marco Giuliani, due abruzzesi amici da una vita che nel 2010, dopo averne bevuto tanto, iniziano a fare il vino. Hanno una vigna di due ettari divisa tra trebbiano d’Abruzzo, pecorino e pinot nero, poi una piccola vigna dove sperimentano tecniche di permacultura e qualche altro ettaro in affitto.
I loro vini sono naturali nel senso più totale e puro del termine: trattamenti agricoli solo con rame e zolfo, vendemmia manuale, nessuna aggiunta o correzione in cantina, che vuol dire anche niente solforosa, come del resto è scritto anche sulle loro etichette. Oggi producono quasi 30 mila bottiglie, comprando parte delle uve da agricoltori della zona disposti a usare solo rame e zolfo. E vendono in tutto il mondo, tanto che forse sono più famosi all’estero che in Italia.
Per spiegare il nome Lammidia, bisogna andare dalla nonna di Davide e così facciamo, appena scendo dal treno. La signora Antonia indossa quel vestito smanicato in tessuto sintetico fantasia che ogni nonna possiede. E casa sua, come la casa di tutte le nonne, è piena di foto di famiglia, di centritavola ricamati e sedie in legno col cuscino imbottito. Diversamente da tutte le nonne però, Antonia toglie la’mmidia, quell’annoso problema che possiamo grossomodo tradurre come: la sfiga che ti augurano gli altri quando sono invidiosi e che malauguratamente a volte si avvera.
L’aneddoto ufficiale è che nella prima annata di vendemmia la fermentazione non partiva e che solo l’intervento di nonna Antonia ha sbloccato la situazione. Così da allora, ogni annata comincia qui, in questo salotto coi centri tavola e la porta sempre aperta. E qui comincio anch’io il mio viaggio abruzzese: in silenzio a osservare la signora che organizza il suo rituale con una scodella d’acqua, un cucchiaio e tre gocce d’olio.
La mattina seguente ci trasferiamo a Villa Celiera, insieme a un gruppo di lavoro che può contare su fidanzate, familiari di vario grado e collaboratori. In tre giorni vendemmieremo, dirasperemo a mano, torchieremo a mano, torchieremo le stesse uve una seconda volta, trasferiremo con dei secchi vari quintali di mosto dal tino al torchio e viceversa. Come in tutte le piccole cantine, il lavoro si trasforma in un gioco di incastri: per fare spazio alle nuove uve in arrivo, lavare i tini in tempo eccetera. Il mio ruolo è a dire poco marginale, però prima della fine saprò guadagnarmi sguardi di rispetto grazie al lavaggio delle cassette, cioè il gradino più basso del lavoro di cantina.
Quanto ai due vignaioli, mi è chiara la loro cultura e determinazione, che li ha resi capaci di incastrare un mestiere – da vignaioli appunto – in una routine che per entrambi comprende già un altro lavoro, impossibile da abbandonare per ora. Per il resto, sono una di quelle coppie dove uno è riflessivo e preciso, l’altro esuberante e scafato. Tornano a somigliarsi a tavola: quando si tratta di criticare un piatto cucinato da altri – c’è troppo sale, c’è troppo olio. E pare si somiglino anche nelle fiere, dove lasciano il loro banco sistematicamente deserto per disperdersi in giro, bere, scambiare bottiglie con altri produttori.
Vabbè, inutile girarci intorno, la vendemmia da Lammidia è una pacchia. A metà mattina si fa pausa con pane e pomodoro e si stappa la prima bottiglia della giornata. Ci sarà poi anche la pausa merenda e quella aperitivo, pause che comprendono sempre del vino eccezionale: Partida Creus, Costadilà, Gut Oggau, per citarne alcuni.
La mattina c’è chi inizia a cucinare il pranzo, a pranzo si parla di cosa mangeremo a cena, lo zio Gabriele spaccia peperoncini del suo orto promettendo che non sono piccanti, ma sono piccanti eccome. Dal primo giorno iniziano a promettermi il “capretto”, grande specialità locale. E le uova in purgatorio, cioè cotte sopra un letto di peperoni e cipolle. Ogni promessa verrà mantenuta, compreso l’assaggio dei due vanti gastronomici di Villa Celiera ovverosia gli arrosticini e i maccheroni alla Molinara.
Si capisce che vorrei raccontare tutto, ma diventerebbe lungo. Per cui mi concentro su tre scene.
Sono quasi le dieci, è buio. Siamo in quattro intorno alla grata con cui diraspiamo, cassetta dopo cassetta, il trebbiano vendemmiato la mattina. Si tratta di diraspo a mano, cioè di strofinare i grappoli sulla grata finché gli acini si separano dai raspi e cadono nel tino sotto. I grappoli sono perfetti, grossi e pesanti, come li ho visti stamattina quando li tagliavo via dalle piante. Da qui, le uve finiranno in anfora dove fermenteranno e verranno torchiate tre settimane dopo. Alla fine il vino si chiamerà Bianco Anfora.
Il trebbiano in anfora non è certo tipico abruzzese e in effetti nelle chiacchiere con Marco e Davide viene fuori quasi subito: a loro non interessa fare i vini come si fanno in Abruzzo: “noi facciamo il vino in modo che piaccia a noi” mi dice Marco, “mi sembra scontato, ma a volte lo dico e la gente si stupisce”.
È una cosa che si sente nei loro vini anche senza essere degli esperti: sono vini fatti da gente che si diverte a farli. Vini senza Super-io – è lecito deridermi per questa citazione freudiana – dove per Super-io intendo quel composito insieme di norme scritte e non scritte che ti induce a fare un certo vino in un certo territorio, simile a quello che lì si è sempre fatto o si faceva prima, dipende. Tradotto: in una terra di vini corposi, i loro vini sono sono poco alcolici e molto freschi. E se un loro vino in fermentazione minaccia di raggiungere i 13 gradi alcol, lo ribattezzano “il palloso”.
Seconda scena. Davide assaggia un vino in fermentazione, io mi prendo una pausa dal torchio e cerco di capire che fa. “È pinot nero” mi dice mentre misura il grado zuccherino, “lo facciamo in carbonica”. Né il pinot nero, né la macerazione carbonica (un tipo di fermentazione che avviene a grappolo intero in assenza di ossigeno) riflettono alcuna tradizione abruzzese, ma insomma quel concetto l’ho già espresso. Mi interessa più quello che dice dopo: “stiamo sperimentando un consiglio di Daniel Sage per la carbonica, per evitare problemi di volatile”.
Daniel Sage è un produttore che hanno visitato durante un viaggio-studio in Ardèche, così come sono stati in Loira, Borgogna, Alsazia, Austria (la lista è lunga). Ci vanno per incontrare i produttori naturali che ammirano e confrontarsi con loro. Hanno iniziato a fare questi viaggi ancora prima di iniziare a fare vino e ogni volta tornano con idee e tecniche da sperimentare a casa, per cui non credo di esagerare a dire che nei loro vini confluiscono frammenti di cultura da vari angoli d’Europa, testati e poi reinterpretati in chiave locale. Ad esempio il pinot nero è stato diviso in quattro diverse micro-vinificazioni, per studiare l’uva, capire come si comporta.
Terza scena. Resto in cucina dopo un abbondante rumoroso pranzo e scorro con lo sguardo una bacheca che raccoglie le etichette dei vini Lammidia, divise per annate. Mi interessa perché in effetti coi loro vini non ci si capisce niente, sono tanti e cambiano ogni anno, è la prima volta che li vedo tutti insieme. La bacheca racconta la loro storia: la prima annata con solo tre etichette, poi sempre di più ogni anno, fino al massimo di 15 etichette nel 2015; ci sono alcuni vini ormai classici come il rosato, il rosso carbo o il bianco anfora, altri che compaiono e scompaiono da un anno all’altro, a volte esperimenti (il pep&ov), a volte nati per caso (il bianco abbandonato).
La bacheca racconta il loro apprendimento costante, gli errori anche, e le trovate più piacione. E tratteggia bene il quadro di libertà in cui hanno sempre fatto il vino. Libertà ecco, di sfidare la tipicità, mostrando che in quel territorio si può fare anche altro, senza dover ricorrere ad alcuna forzatura agricola o enologica. Libertà, in fondo, di capire cosa viene meglio e di farlo come piace a loro e basta. Nel mondo del vino, dove tutto diventa sacro in un attimo, il loro modo laico e scanzonato di fare i vignaioli è stato per me una boccata d’aria fresca.
Torno al torchio dove ho iniziato la storia: il rosato che nascerà da qui non somiglierà al Cerasuolo tipico di queste parti (che è appunto un rosato di uve Montepulciano). Io dico che dentro avrà molto più territorio di un Cerasuolo DOC con lieviti selezionati e additivi vari. E che con la sua leggerezza finirà per somigliare a chi l’ha fatto, ai pranzi rumorosi, ai peperoncini dell’orto e alla nonna Antonia. Racconterà le persone, che sono parte del territorio tanto quanto il suolo e il clima. Ma è a dire così che divento noiosa, mentre questo rosato è così buono proprio perché non vuole avere ragione.
Sono andata a vedere come nascono i vini naturali di Lammidia in Abruzzo. E devo dire che qui la vendemmia è una pacchia: a metà mattina si fa pausa e si stappa la prima bottiglia della giornata.
Sorgente: Vini naturali in Abruzzo: la storia di Lammidia